Puoi lasciarti i ricordi dietro solo quando li lasci in mani sicure. E quando hai lasciato i ricordi dietro, puoi guardare avanti. O quantomeno di lato. E' importante viaggiare senza paraocchi, in questa vita.
- Marshall Lee dice che nel mio cuore ho un sacco di
stanze, come i bordelli. La tua stanza resterà vuota, avrò un buco nel
cervello, tu avrai un cimitero.
- Marshall Lee medico di bordo forse ha ragione, forse
il tuo cuore metaforico ha molte stanze. Ma non come i bordelli, perchè
io ti conosco Moloko Cortès, e non c'è nessuno che può affittare stanze
nel tuo cuore metaforico. Le stanze sono più come quelle di una
Firefly. Ogni stanza ha una funzione. C'è la sickbay, e c'è il cockpit, e
c'è la sala macchine. Questa è una metafora. - Però se io ti lascio andare, tu devi trovare Andre,
ma devi ritrovare anche Spartaca. Se ti nascondi da casa tua non potrai
mai avere una casa da nessun'altra parte. - Certo che tornerò a Spartaca, Moloko Cortès.
Quando avremo vinto la guerra e avremo riconquistato quello che era
nostro, come anche Richleaf e Shadetrack. Ti spiegherò per lettera il
mio piano. - Le stelle non stanno mai vicine ci hai mai fatto caso? Guardale... è il destino nostro, sparpagliarci per tutta la galassia. Andrè, Renee, Moloko e Mordecai... Sembrano un sacco vicine viste da qua sotto. - Puoi usare il fazzoletto di seta per asciugare l'eventuale muco che impiegherai per esternare le tue emozioni, adesso. - Piangerai prima tu.
*
[Shadetrack, Aprile 2516]
Una nuvola di polvere si alza intorno ad un Greenfield Wild sfiancato da
settimane di viaggio, mentre frena la sua corsa davanti alla fontana
nella piazza centrale di Santa Teresa, pochi chilometri a nord di Sweet
Waters. Mordecai Adler porta Helena sulla spalla ed ha i capelli scuri
stretti in trecce fermate con perline. Indossa una camicia vittoriana il
cui primo bottone è aperto, ed il sole ha colorato il viso di bronzo.
Sta per aprire la bocca e chiedere se il santo è lì, quando sui gradini
della chiesa di pietra e calce appare una figura alta e magra che nel
sorriso sbilenco stringe un filo di paglia.
Gli occhi azzurri si inchiodano sulla sua ombra, per risalirne lentamente il corpo, fino al viso. Allo stesso ritmo, il mondo le si arrampica lungo le vertebre, fino a colpirla seccamente dietro la nuca. André Vandoosler tira un ghigno un po' sfatto, ma non è la droga. Mordecai Adler scivola giù dalla sella, appoggiando i piedi a terra quasi senza fare rumore. Il vento ruba polvere alla strada. Helena lascia la spalla, spiccando il volo verso un cielo bruciato dal sole.
I neon vibrano come panni sporchi di luce sopra le brande della sickbay. Colpi di elettricità intermittente si insinuano fra le palpebre, tracce di carbone sono ancora visibili intorno alle unghie, nonostante le sfregature maniacali sotto l'acqua bollente. La mano sottile stringe l'unica restante di Peter, il ragazzino il cui braccio è stato divorato dalle miniere. Peter dorme, la coscienza buttata a terra da una martellata di morfina. I capelli sono tornati rossi, dopo esser stati lavati. Intorno alle mascelle e sotto le narici porta un po' di barba. Non i ceppi castrati in partenza ogni mattina degli uomini maturi, ma i boccioli incerti di chi sta diventando un'altra persona. Adler passa il pollice lungo il suo mento, senza svegliarlo. Il braccio sinistro finisce in un moncone sotto il gomito, avvolto in fasce pulite. Peter ha voluto tenere la bandana di Moloko, gliel'hanno appesa ai piedi della branda. Non si chiede cosa stia sognando. Sa che Helena ne ha invaso il retro delle palpebre, appropriandosi del mondo scuro come il carbone che ne ha riempito ogni fottuto giorno dell'infanzia. Adler ricorda le storie degli operai di Safeport prima della guerra. La storia delle cinque dita. Dei pezzi mancanti. Degli storpi agli angoli di strada a mendicare. Per scavare, così come per aggrapparti alle miniere ti servono due mani. Non esiste calcolo più semplice. Peter continua a dormire, ignaro. Quando aprirà la porta dei sogni verso la realtà, penserà di essersi sbagliato. Di essersi affacciato su un altro incubo. E' così che la guerra continua, intorno a Polaris. Ogni giorno.
Un rumore improvviso squarcia la nebbia che ha avvolto la coscienza di Adler. E' Cortès, che barcolla oltre l'entrata della sickbay. La minispartiana si sfrega gli occhi pieni di sonno e si tira su dritta, senza mollare la mano di Peter. Osserva Cortès contare i passi.
"Quattro per tre... uno"
"Quattro per tre fa dodici, Moloko Cortès. Devi fidarti molto delle regole, soprattutto quando non hai tempo."
"..Fffuck."
Lascia la mano di Peter, gliela appoggia contro il cuore. Si avvicina a Moloko, tentando di prenderla per i gomiti come si tratterebbe un mulo scontroso.
"Devi esserti ferita alle miniere."
"Mhr... Cazzo dici Adler, mh? Ti sembro..."
"Seguimi."
Adler trascina Cortès verso l'unica branda libera - quella vicino all'uomo che ha salvato.
"Ti sembro ferita? Mh? Incinta... Ecco."
"Non sottolineare l'ovvio, Moloko Cortès. Non tutte le ferite sono superficiali e non tutte le ferite sono visibili, quindi adesso ti sdraierai e poi ti faremo una rapida visita."
"Ti dico io cosa visitiamo. Visitiamo l'Hydra, mh? E' ancora ap...bhw..."
"Molto bene, Moloko Cortès"
Le carezza il collo e lo spazio piatto fra le scapole.
"Se espelli le sostanze dannose adesso ti sentirai molto meglio domani"
"Cosa? Intendi che devo sputare fuori 'sto scricciolo adesso?"
"Non il feto, Moloko Cortès. L'alcol."
"Mh... Fuck."
Cortès si gira sulla schiena e fissa la luce allucinante del neon.
"Ora chiudi gli occhi."
Adler appoggia una mano sulla fronte della 'Leafer, poi sul suo ventre.
"Succedono molte cose terribili spesso alle persone e tutto è molto casuale ma una tattica molto importante per sopravvivere è di non innamorarsi di tutto il mondo ma solo di qualcuno. Se concentri le tue energie affettive su pochi elementi riduci il rischio di effetti collaterali, Moloko Cortès"
"...?"
"Avere un figlio significa concentrare molto affetto, Moloko Cortès. Pensa a quello".
"..."
"Tre per otto?"
"..."
Cortès Dorme. Adler ne carezza la fronte fradicia di sudore e vomito in silenzio, ma lo sguardo è fisso su Peter Kelly, il ragazzino di diciotto anni già senza futuro. La tattica molto importante è non innamorarsi di tutti.
In un’altra epoca saremmo stati liberi. In un’altra epoca, ci saremmo innamorati. Avremmo avuto figli, avremmo litigato per le cose più banali. Ci saremmo incoronati a vicenda con spine invisibili ed avremmo proclamato fede nell’infinito. L’universo non è infinito. Non oggi. L’universo è pieno di frontiere più solide delle pareti di questa nave. E’ facile affondare.
[Safeport, febbraio 2516]
Non ci sono macchinari a monitorare l’attività cerebrale, o cardiaca. Quattro volte al giorno passano con uno specchietto. Il respiro opaco sulla superficie lucida è un segno di vita sufficiente. Adam Clarke si alza stancamente dalla sedia, sente le giunture cigolare in protesta. Si sporge sopra il corpo della ragazza minuta i cui capelli raggiungono ormai la base del collo. Capelli scuri come la terra che hanno perso: ha tagliato via le strane punte ossigenate. Ogni sera la pettina, la lava, le parla. A volte si limita ad accendere le cortex news, ma la maggior parte delle volte il cuore gli si stringe dopo un servizio o due, costringendolo a spegnere. E’ una gelida sera di febbraio, a Safeport. La ragazza minuta e senza nome l’ha seguito come una maledizione, di campo in campo, fino all’infermeria. Fino alla sconfitta. Quando è stata consegnata alle sue cure qualcuno era già riuscito a perderne la targhetta militare. Adam passa le dita fra i capelli della sua paziente più fedele. Ha smesso di chiedersi se si sveglierà, un giorno. Ne studia i tatuaggi sul braccio, sorride senza convinzione. Si ricorda di tutte le volte che ha preso i fondelli il fratello Jack per essersi tatuato il nome sulla schiena. Sulla schiena, la ragazza ha solo un’aquila. E’ diventata l’aquila dormiente dell’infermeria.
Qualcuno chiama il sergente medico Clarke dal corridoio. “Second!” ringhia l’infermiere fra i denti, coprendo il corpo della paziente con una coperta di lana in più. E’ quando fa per girarsi che un movimento insignificante della mano della paziente lo fa sobbalzare. L’attenzione si fionda sui suoi occhi. Non ne ha mai visto il colore. La ragazza minuta digrigna i denti aprendo le palpebre, nemmeno stesse sollevando una saracinesca di piombo. Sfuocato davanti a lei ondeggia un infermiere sulla trentina, scuro, impietrito.
“…Hm.”
“Hey. Hey, piano. Non ti affaticare. Sei nell’infermeria di Safeport, sei al sicuro.”
“…Hm.”
“Sono qui con te.”
Adam Clarke prende la mano della ragazza, ritrova una vecchia amica dentro una crisalide spezzata. Adam Clarke imparerà che non bisognerebbe mai innamorarsi di chi non si conosce.
“Ti ricordi il tuo nome?”
Le pupille si restringono, gli occhi si aprono con una fierezza rapace. Come se l’intera anima fosse stata catapultata nel corpo tutto d’un colpo, centrandolo perfettamente.
“Certo che mi ricordo. Abbiamo vinto la guerra?”
In un’altra epoca, avremmo mentito. Ma arrivi alla fine di un periodo così, che non ti restano nemmeno le bugie in tasca. Non hai più niente da dare.
La tenda sostiene a fatica le granate d'acqua. La pioggia si fa più fredda di giorno in giorno, ed i mantra masticati in un disperato tentativo di restare sveglia avrebbero bisogno di una passata d'olio. Cigolano. Ho sangue fra le mani da sempre
Eamon Taylor le ha ordinato cinque ore di sonno. Lei ha chiuso l'occhio e continuato a lavorare con l'altro. Uragani di cenere hanno devastato lo spazio immobile. Sente le grida, spegne il cortex. Lascia gli incubi agli ammiragli, ai capitani. Prende ferita per ferita, perchè non può ricucirne più che una alla volta.
Ho sangue fra le mani da sempre
L'hanno piazzata al delta di un fiume chiedendole di fermare l'acqua con un secchio. Da sempre.
Dorme da sola la notte, adesso. Nessuno è abbastanza coraggioso da bussarre alla sua schiena di granito. Nessuno abbastanza insolente da scaldarle la periferia del cuore, su questa nave così vecchia, così estranea. Nessuno abbastanza vicino da provarci.
Ricorda l'esatta inclinazione degli angoli della sua bocca. Cinque virgola sette gradi. E' l'inizio del sorriso dei santi, le avrebbe spiegato Eamon Taylor, se lei non si fosse seppellita sotto un un camice di silenzio ed un mare di bisturi galleggianti. Piovono monete, pensa, mentre fissa il telo della tenda tremare, mentre inpira l'odore di croste, alcol e fango.
Le mani nella testa di Renee Bolivar.
Le labbra incastrate fra quelle di André Vandoosler. I piedi
attorcigliati intorno a quelli di Moloko Cortes nel sonno tormentato
della cabina 9d. Ricorda il sapore del sangue sparso nella polvere,
di ogni millilitro di sangue che le hanno fatto sputare. Il quadro,
ed il peso invisibile fra le mani. Piena di spine. E' piena di spine,
Mordecai Adler. André Vandoosler sottolinea l'ovvio.
E' notte ed è giorno, perchè la mente
umana è possente e sposta il tempo come la più cocciuta delle
bestie da soma. E' notte, e la muraglia di cuscini e coperte è
stata abbattuta verso il fondo del letto dal sonno agitato di
Anchorage ed Argo. Hanno spezzato le barriere, ed i piedi delle
ragazze si sfiorano con la stessa delicatezza con la quale si bussa
alla porta dell'anima. E' giorno, nel sonno disperso del medico di
bordo. Le pupille si agitano frenetiche sotto le palpebre chiuse,
scansionando l'orizzonte vuoto, riempiendolo delle proprie paure. E'
nel deserto, i piedi affondano nella sabbia. Helena si disperde, in
alto, nella condensa di sole. Il cielo è limpido ed impietoso. Sono
nel centro di Atacama, e la statua di legno è bruciata mille anni
fa. Amare non era così difficile nell'epoca precedente alla
definizione del cuore. I piedi si piantano, si fermano. La schiena si
china e s'incrina, seguendo gli scatti sconnessi della decomposizione
incosciente. Le immagini ruotano rapide nella pulsazione invisibile
dell'iride. Mordecai Adler non è crocefissa, ma è la croce stessa.
Un'architettura selvatica e piena di spine, piantata come un pugnale
nel centro di un cuore alla mercè di tutti. Un cuore aperto come il
deserto. Più vi conficca le proprie radici crudeli e più è sicura
di resistere alla tempesta. Più gli è vicino e più lo ferisce.
Gli occhi si spalancano all'improvviso,
l'odore ferroso del sangue forte dentro le narici. Il cuore pulsa fin
nelle tempie. Sono le otto di sera ed ha dormito tre ore, dopo aver
passato le ultime trenta a sequestrare sacche di sangue e vegliare su
Renee Bolivar. Scende dal letto barcollando, come se qualcuno avesse
aperto una finestra, sguainando una corrente d'aria pericolosa per il
soldatino di cartavelina. Esce dalla cabina, diretta verso la
sickbay. Lascia il materasso, il quadro, il peso invisbile, le
moltiplicazioni della presenza incrostata di Cortes, André
Vandoosler crocefisso sulle spine. Anche il deserto è pieno di spine.
So your mouth tastes like sunshine / Baby but your eyes / Are all cool / Buried in my arms / And the breeze takes us deeper and further into / The heart of the moment that is gone
And the scent of your heartache / Baby and the taste / Of your blood / Run within me / And there are red flowers in your spit / When you enter my mouth / Under the bed / Down on the floor
So take me under the floorboards / I would love to feel like wood / And take me back to the retards / 'Cause this world just make me sick / There are colours in the air / When I fall to the ground / How we'd love to fall more often
Tennessee Miller trascina le
stampelle nella sabbia della strada. Le appoggia, facendo forza sulle
spalle stanche, si solleva, trascina l'unico piede nella sabbia. Lo
appoggia, cercando l'equilibrio. E trascina le stampelle nella sabbia
della strada. I cancelli di Villa Adler si avvicinano con una
lentezza frustrante. Le pareti, una volta squadrate e pulite, sono
state rosicchiate dai proiettili, e il nero sudato dalla pietra
durante l'incendio del '09 non è mai stato scrostato. Il ferro dei
cancelli è arrugginito, il giardino assomiglia ogni anno di più al
Takla Makan.
La porta si apre bruscamente, ma lo
spiraglio è limitato, frenato dalla catenina all'interno. Gli occhi
liquidi di Tennessee si alzano sullo spettro nel buio nella casa.
Clara Adler gli sta dritta davanti. Le rughe sembrano canali per la
durezza, la severità non è caduta così in basso quanto le spalle,
che sopportano male il peso degli anni. I capelli bianchi sono
raccolti sulla nuca, a tirare indietro la pelle delle tempie e della
fronte. Con il sospiro tipico di chi si è arreso secoli fa, sgancia
la catenina senza salutare, e si sposta indietro seguendo l'arco
tracciato dalla porta lungo il suo perno. Tennesse avanza con la
tenacia dei portatori di fiaccole nella tempesta.
-She home?
Le labbra di Clara sono percorse da un
guizzo ispido, freddo.
-Where else should she be?
L'uomo appoggia le stampelle sullo
stipite, e si solleva dentro la villa. Appoggia il piede, cerca
l'equilibrio, appoggia le stampelle. Inspira l'odore che impregna
l'aria, le pareti i mobili. Socchiude gli occhi.
Helena, Spartaca, agosto 2502
-Siamo morti. Siamo morti. Anzi,
torturati e morti.
Tennessee, 16 anni, si regge la testa
mentre barcolla dietro a Mordecai mentre la notte ancora cerca di
tenere nascoste le loro misfatte. Ma l'alba lampeggia pericolosa
all'orizzonte, scivolando innamorata sul profilo di Atacama.
-Shhht.
Lo zittisce Mordecai. Indica la porta
principale. Si guardano, le teste ancora zuppe di sputo di falco.
Miller ride. Ride di gusto, mentre
scuote la testa.
-Si entra sempre dall'ingresso
principale, e si accettano sempre le conseguenze..Tennessee Miller.
Il fiato spezzato di Mordecai risveglia
fra le dita del ragazzo l'irresistibile bisogno di passargliele sulla
nuca, fra i capelli corti e le piume rovinate. Avvicina il viso al
suo, ansimandole fra le labbra vapore d'alcol. Ne spinge le scapole
contro il legno sontuoso dell'ingresso, mentre la mano della
ragazzina cerca la chiave nella tasca. Le infila nella toppa, senza
guardare. Gira. Lo scatto della serratura blocca ogni terribile
intento di Miller. Schiudono la porta, sfilano gli anfibi pieni di
sabbia ed avanzano in punta di piedi. Le facce portano ancora i segni
neri della pittura da guerra, ed ogni scalino ha una terribile
tendenza a sdoppiarsi, quando i piedi cercano di tenerli al loro
posto per salirvi. La scalinata sembra eterna. Il tappeto, il legno,
la pietra e le pareti hanno orchestrato una sinfonia di odori che
mozza il fiato e catapulta la mente nel grembo dei grandi saggi e
delle leggi incise sulla pietra. Non è odore di casa. E' odore di
Spartaca.
Almost Home, Bullfinch, Luglio 2515
-Cinque per due? -Dieci. -Cinque per tre? -Quindici. -Cinque per quattro? -Kay, sono le sei del mattino e siamo
sverse e... -La risposta esatta è venti.
Sono nascoste dalle coperte, perché la
lana isola il rumore ed i mugolii spassionati di Moloko quando
ridacchia, e le istruzioni severe ma parecchio trascinate di Adler.
Ai loro piedi, nascosti anche loro, Anchorage ed Argo dormono
pacificamente. -Devi smettere di contare uno ad uno,
Moloko Cortes. Devi fidarti delle regole.
Il sorriso spaccato della solo rivela
qualche dubbio in merito. L'odore di cane e di stoffa calda e di
respiro umano e di alcol è pesante, viene ingoiato a cucchiaiate sui
cui bisogna soffiare sopra, come la zuppa bollente. Mordecai si
zittisce, ruota la nuca indietro, la faccia direttamente nella
coperta, come se indossasse una maschera magica. Respira dentro le
fibre, tirandosi la lana contro le narici. Non ha mai sentito un
odore così forte.
Helena, Spartaca, luglio 2515
Tennessee Miller apre la porta con
cautela. Si trascina verso la grande finestra, che rilascia sulla
stanza un oceano di luce opaca. Le tende non sono state smontate
dalla guerra: sono state tirate giù dalla disperazione. La figura in
profilo sulla sedia a rotelle sembra una statua malpiazzata. Ruota la
testa verso di lui lentamente. Un crepaccio grigiastro divide le
labbra in un sorriso instabile. La voce dolcissima si arrampica a
fatica fuori dalla gola -Tennessee.
-Miss Adler.. -Stella. Ti prego, Stella.
Ogni tensione sul volto dell'uomo
sembra allentarsi. Si ferma a pochi passi da lei. Le spalle sono
muscolose, mantenute compatte dallo sforzo di doversi tirare dietro
il resto del corpo. Ogni giorno, da quando una delle sue fondamenta è
rimasta a marcire in una trincea di Serenity. -Siediti.
Mormora Stella, indicando una delle
sedie di legno che circondano il tavolo annerito. Tennessee molla le
stampelle, s'appoggia alla sedia e se la trascina contro, crollandovi
sopra. Quindi cerca di portarsi più vicino alla donna. Gli occhi
chiarissimi di lei lo fissano, scivolano sul suo volto carichi di una
tristezza che non riesce a spacciarsi per amore.
-Sei ancora così bello.
Scuote il capo, i capelli biondi che ne
seguono il volto spettrale in onde dorate. Di ciò che è nascosto
sotto lo spesso scialle di lana nera, si intravede solo la punta di un
ginocchio ossuto. La sua mano sottilissima scivola piano
verso la gamba destra di Tennessee. O quel che ne resta. L'arto si
interrompe una spanna prima della giuntura del ginocchio. Miller
chiude gli occhi di nuovo, ingoiando il buio e la luce rosea,
impertinente che le palpebre non riescono a catturare.
Saint Lucy, Serenity Valley, Hera,
febbraio 2511
Vede le stelle. Sono milioni, e sono a
portata di mano. Nitidamente a portata di mano. Ha la bocca
spalancata, ma l'ultimo urlo è stato emesso molti minuti prima. Il
volto è fradicio di sudore, la dose di morfina elargita è stata
appena abbastanza potente da intaccarne la percezione della realtà.
La figura che lo aggira di continuo si interrompe d'improvviso, e
gira la testa verso di lui. Gli occhi di Mordecai Adler sono liquidi,
lucidi, in tutta la loro impassibilità. Ne è certo, è sicuro di
averla vista con laghi nelle orbite. -Fermo. Questo comporterà estremo
dolore, Tennessee Williams. Perderai i sensi.
Il respiro affannato del soldato è
instabile quanto il suo sguardo. Cerca appigli, ma non ne trova. La
materia si agglomera, si scioglie, si unisce, trema. La mano del
capitano Adler è ferma appena sopra il suo ginocchio. Il piede già
nero, i petali di granata ancora conficcati nel polpaccio, nella
caviglia. Uno al centro del ginocchio. La carne è stata operata con
tenacia, separando i muscoli, i tendini. I nervi. Ma nessuna garza
regge, il tamponamento è similie ad una fila di sacchi di sabbia a
guardia di uno tsunami. Affonda la mano sulla sua pelle, un dito
scivola contro la carne viva. La spalla inarcata, la destra scivola
indietro. I denti della sega metallica tagliano la prima tacca dentro
l'osso. Le galassie sono sempre piú vicine. Sono dentro il sangue.
Helena, Spartaca, agosto 2502
La luce di Columba è rosa, e li
accarezza dolcemente. I corpi sparsi nel letto all'ultimo piano di
Villa Adler cercano di riassumere il contenuto di ogni respiro con
movimenti impercettibili. Le nocche di Tennessee scivolano sulla
guancia di Mordecai, mentre respira l'odore del mattino gelido dalla
finestra spalancata. Sorride al soffitto, il suo amico. Sfiora il
profilo della ragazza con lo sguardo. Nella mano, stringe la loro
catena. Sta per dire qualcosa di incredibilmente romantico e poetico,
quando i passi nella scala tranciano il fiato ad entrambi. Gli occhi
sgranati di Mordecai cacciano Tennessee sotto il letto, appena
qualche millisecondo prima che Clara Adler spalanchi la porta senza
bussare. Gli occhi grigi ed impassibli quanto quelli di Juste
Montgomery la squadrano. Annusa l'aria, fissa la finestra spalancata.
Non commenta. -La macchina è pronta fra mezz'ora. La
tua tunica è nell'armadio. Ripasseremo i canti stradafacendo.
Un cenno militare del mento, quindi
sbatte la porta. Da sotto il materasso si espande una risata aperta,
esausta.
Mordecai Adler rientra alla nave mentre nei corridoi metallici regna il silenzio. Si sbriga, attraversando quello principale fino alla cabina 9g. Ne apre la porta con discrezione, in caso Renee Bolivar fosse lì. Invece, incontra lo sguardo di Argo, lucido e felice nel buio. Liberandosi d'un colpo di tutti gli spilli che hanno tenuto le labbra ferme durante la sera, scolpisce fra gli angoli della bocca qualcosa di molto simile ad un sorriso. Batte le mani e lo attira a sè facilmente. Lo carezza piano, quindi, tenendoselo dietro, richiude la porta della cabina e se ne torna verso la propria camera, portandoci dentro il dogo. La mattina, se qualcuno dovesse chiederle se l'ha visto, scuoterà il capo con estrema serietà.